I colori, i profumi, i sapori, le forme coinvolgono in un unico piacere tutti i sensi, inoltre regalano zuccheri, minerali e vitamine. Insomma, piacere e salute uniti in un morso, raccolti in un succo.
Per i nostri antenati fu facile scoprirne i pregi, visto che da sempre la frutta ha occupato un posto d’onore nell’alimentazione; certamente aveva per loro anche altre qualità, come la facilità di raccolta e la possibilità di utilizzarla senza alcuna trasformazione. Il suo gusto zuccherino, poi, è stato, assieme al miele, il primo contatto dell’uomo con il “dolce” e per molti secoli, proprio a causa di questo comun denominatore, essi sono rimasti gli ingredienti base della pasticceria.
Tra le specie di frutta, le più diffuse nell’antichità erano sicuramente la mela, la pesca, la pera, ma anche, come testimonia Plinio nei suoi scritti, il melograno che fu oggetto delle prime coltivazioni con il nome di malum punicum, a ricordare una particolare produzione cartaginese molto decantata.
Importante quanto la raccolta era indubbiamente la conservazione dei frutti, e Magone descrive alcune tecniche riferite specificatamente al melograno: per esempio, il frutto sbollentato in acqua di mare e poi essiccato, oppure ricoperto di terracotta e appeso ad asciugare.
Dello stesso periodo, a Cartagine e a Capo Lilibeo, sono state trovate testimonianze del consumo di nocciole, mandorle e noci, ma è certo che si consumassero anche pistacchi, castagne e datteri. L’uva poi si gustava in abbondanza, sia fresca sia passita.
Nel periodo della massima potenza di Roma era già nota anche l’arte dell’innesto e si selezionavano ben 25 varietà di mele e 38 di pere. Per conservarle si immergevano i frutti interi nel miele, piccioli compresi. Anche Apicio (I secolo d.C.), nel suo De re coquinaria, elenca alcuni suggerimenti sulla conservazione di uva, mele e mele granate (sbollentate in acqua), mele cotogne (miele e mosto cotto), fichi freschi assieme a mele, prugne, pere e ciliegie (nel miele), cedri (in vaso con il gesso) e more (in sciroppo con mosto cotto).
Greci e Romani amavano consumare la frutta, che entrava quotidianamente nella loro dieta con una notevole possibilità di scelta, anche se legata al territorio.
È tuttavia nell’età medievale, nei conventi dai grandi orti e giardini, che nascono i primi veri dolci a base di frutta, con prevalenza di uva passa e fichi. Si trattava per lo più di ciambelline, biscotti e focacce dolci che venivano venduti ai pellegrini di passaggio. Non mancavano i dolci fritti e poi immersi nel miele. Anche frutta, semi e steli venivano ricoperti di miele, canditi e poi utilizzati come ingredienti nelle torte oppure come decorazione. In Europa, dove le invasioni barbariche aveva ridotto notevolmente i consumi, solo le corti più opulente potevano permettersi anche prodotti provenienti dall’Oriente, e li esibivano durante i banchetti, trasformati in specialità: marmellate o gelatine di mele cotogne, di cedro, di rosa, di mela, di pera e di prugna.
Lo ricorda l’imperatore Costantino vii Porfirogenito (IX secolo) nel Trattato delle cerimonie della Corte di Bisanzio.Nel periodo più florido del Medioevo, l’Italia, con Venezia, primo centro di esportazione dello zucchero, detta legge in cucina per sontuosità e creatività nell’arte dolciaria. Con l’ampia possibilità di scelta dovuta alle coltivazioni locali e all’importazione, sulle mense dei più abbienti apparivano ciliegie, mele, mele cotogne, melograni, prugne, susine, fichi, pesche, frutti di bosco, uva, uva spina, noci e pistacchi, e ancora datteri, fichi secchi, mandorle, arance amare, limoni, cedri… Una tavolozza di ingredienti con cui i cuochi potevano sbizzarrirsi, e sicuramente lo fecero.
Verso la fine del Medioevo, secondo le teorie medico-alimentari del celebre Arnaud de Villeneuve, vengono attribuiti, ad alcuni frutti in particolare, eccezionali poteri; le mandorle, per esempio, sarebbero state afrodisiache, come del resto il torrone di pinoli (pignolat) e le paste di frutta. Le mandorle erano anche consigliate nella “dieta bianca” di derivazione galenica, che pareva combattere i problemi della bile nera, con il biancomangiare (pietanza a base di pollo, mandorle e latte) e altre preparazioni dal colore naturalmente bianco.
Come abbiamo accennato, cucina e medicina erano strettamente legate: una corretta alimentazione manteneva il giusto equilibrio degli umori del corpo, quindi salvaguardava la salute. Esistevano regole igieniche che guidavano anche la sequenza delle portate di un pranzo: il Platina ha dedicato a questo argomento un intero capitolo del suo trattato. All’inizio del pranzo suggerisce mele acerbe, pere e more, oppure arance e limoni, ma anche insalate di frutta e verdura condite con aceto o limone, per stimolare l’appetito. Le insalate d’apertura saranno poi soggetto di lunghe disquisizioni, e nel 1627 Salvatore Massonio (1627) dedicherà loro addirittura un libro (l’Archidipno) in cui, tra l’altro, enuncerà questa definizione: “... ben sovente si mescolano le radici con le frondi, con i fiori, e con i frutti, e questi con i germogli, e tutte queste han nome di vere insalate”. Continuando con il pranzo, la “terza portata”, come il Platina chiama quella di chiusura, aveva il compito di “sigillare” lo stomaco: la frutta di solito svolgeva questa funzione. Si doveva scegliere, secondo la stagione, tra mele cotogne, melograni, pistacchi, castagne, ma anche mandorle, nocciole e noci erano astringenti, quindi adatte allo scopo.
Nel Cinquecento si diffonde in Italia l’abitudine di servire a inizio pasto preparazioni dolci, soprattutto a base di frutta. Bartolomeo Scappi, nel suo banchetto in onore dell’imperatore Carlo v, fa precedere i tre “servizi di cucina” da un “servizio di credenza” a base di biscotti pisani e romaneschi, morselletti di marzapane, mostaccioli napoletani, zucchero e latte di pinoli e, nel “secondo servizio di credenza”, frutta, dolci, geli e confetti. Nel 1555 un certo Michel de Nostre-Dame, il famoso Nostradamus, pubblica un trattato sull’arte di produrre le marmellate. Grande profeta e autore di talento, era quanto di meglio Caterina de’ Medici si potesse augurare, dato che le due grandi passioni di questa sovrana erano i maghi e le confetture. Nel suo ricettario adatta con abilità alcune preparazioni orientali ai gusti francesi, come nel caso della gelatina di ciliegie selvatiche e della marmellata di zenzero verde.
A partire dal xvii secolo il numero delle confetture allo zucchero non farà che aumentare, e compariranno le acque distillate, le bibite alla frutta, i gelati e, con loro, anche i libri di ricette detti livres d’office, in cui appariranno illustrazioni di dessert dalle forme e dimensioni veramente spettacolari.
La fantasia dei pasticcieri, ridimensionata alle esigenze più moderne, è andata via via creando nuove preparazioni, senza tuttavia perdere di vista quei dolci che la tradizione ha portato fino a noi.
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