Un'altra versione, mista di riferimenti storici e di fantasie popolari, attribuirebbe l'origine delle copate alle stesse monache di Montecelso, già coinvolte nella nascita del panpepato. Costoro avrebbero avuto notizia che le suore del Convento di San Baronto a Lamporecchio, che producevano ostie da consacrare per cerimonie religiose, le avrebbero rese più morbide e gradevoli aggiungendovi piccole dosi di miele. L'idea piacque alla Badessa del Convento di Montecelso che ne copiò la ricetta, apportandovi una sostanziale modifica: le ostie vennero accoppiate e tenute unite proprio da un sottile strato di miele, assumendo l'aspetto delle moderne copate. Questi dolcetti vennero chiamati inizialmente “nebulae” e inseriti nell'elenco dei cibi da consumarsi nei giorni santi, quali la Pasqua ed il Natale. Il termine “copata” deriverebbe dal latino “copatus” che, in questo caso, assumerebbe il significato di accoppiato. Più probabile che l'etimologia provenga dall'arabo “qubbaita”, che vuol dire “dolce mandorlato” e ciò proverebbe che l'origine di questo delizioso dolce verrebbe da molto lontano.
Altri dolci dell'epoca dovevano essere i morselletti, bocconcini di zucchero con pinoli e spezie, offerti durante i banchetti medioevali e rinascimentali, di cui c'è traccia in un sonetto di Folgore da San Gimignano.
L'etimologia, secondo il Tommaseo, proviene da “[...] morsello che sta per bocconcello di cosa buona [...]”; dunque doveva essere un bocconcino particolarmente gradevole e delicato. Nel “Libro verde n. 395”, custodito all'Opera del Duomo di Siena, si legge che alcuni speziali del '400 fanno riferimento a commesse ricevute per confezionare “morselletti” in concomitanza di alcune feste o per onorare avvenimenti di particolare importanza. Si deduce, pertanto, che nel XV secolo questo termine fosse già in uso e che questi dolci facessero parte delle confetture in vendita presso le spezierie. Il loro consumo, da quanto emerge, sarebbe stato più pronunciato in Agosto, durante le festività dell'Assunta.
Fra gli antichi dolci di Siena, un posto di primo piano spetta al “marzapane alla senese”, preparato con mandorle macinate, zucchero e albume d'uovo. In questo caso è importante notare che il prodotto non compariva fra quelli, come i panpepati, le copate e i biricuocoli, citati nei tariffari delle gabelle, mentre a quest'ultime erano sottoposte le mandorle. Ciò fa desumere che i marzapani fossero gli unici dolci tradizionali prodotti solo in città e che per confezionarli fosse necessario far venire da fuori le mandorle, elemento principale di essi.
Per quanto riguarda la loro origine, dovremmo risalire a tempi lontanissimi ricordando che, presso i Romani, esisteva il “panis Martis”, una mescolanza di miele e mandorle che costituiva una ghiottoneria da triclivio imperiale. Questo impasto veniva, tra l'altro, distribuito anche ai legionari prima delle battaglie, perché aveva fama di essere un notevole energetico che rendeva l'uomo più combattivo.
Di queste presunte proprietà troviamo menzione in numerosi autori latini, fra cui Ovidio e Virgilio. Più realisticamente l'etimologia del nome fa pensare che i senesi avessero conosciuto il marzapane in Oriente e che fosse stato importato da alcuni paesi di quella parte del mondo. Alcuni linguisti sostengono, infatti, che “marzapane” derivi dalla città birmana di Mastaban, altri che il termine discenda dall'arabo “mauthaban”, che definiva la scatola contenente il marzapane. Qualunque sia stata la sua provenienza, il marzapane divenne elemento insostituibile della gastronomia senese, tanto da essere più volte citato nei documenti dal '400 in poi. Da allora panpepati, marzapani e biricuocoli non mancheranno mai dai pranzi ufficiali dei senesi né dagli omaggi fatti dalla Repubblica a personaggi di prestigio. La pasta di mandorle veniva considerata una prelibatezza, il massimo della ghiottoneria, un dono sopraffino per gli illustri ospiti ricevuti in città. L'importanza di questo dolce viene sottolineata anche da Nicolò Macchiavelli, che ricorda come i senesi vollero offrire ben ventiquattro marzapani ad un legato pontificio.
Da altra fonte si ha notizia che nel 1536 vennero serviti cento marzapani, nel palazzo Petrucci, durante un banchetto in onore dell'imperatore Carlo V. Nel XVII secolo gli studenti dell'Università di Siena erano addirittura obbligati, in occasione dell'esame di laurea, a donare al Rettore due marzapani e due fiaschi di vino.
Ricciarelli e altri dolci meno “nobili”.
In passato i marzapani venivano confezionati e venduti in forma di piccoli pani. Molto probabilmente, con il passare del tempo, mutarono forma e dimensione, dando origine agli attuali ricciarelli. Infatti nei tanti documenti dove si ricorda il marzapane, si fa menzione anche di dolci più piccoli detti “marzapanetti”.
E' opinione diffusa che costoro fossero proprio i progenitori dei “ricciarelli”, parola dall'etimologia sconosciuta il cui uso è documentato solo a partire dal 1800, quando compare in uno scritto del pistoiese Policarpo Petrocchi e nel “Dizionario Etimologico Italiano” di Carlo Battisti e Giovanni Alessio. Seguendo leggende e tradizioni popolari, sembra che il termine “ricciarello” si riferisse alla loro forma arricciata.
Fu un senese, tale Ricciardetto Della Gherardesca che, tornato dalle crociate nel suo castello vicino a Volterra, introdusse per primo l'uso di questi dolci stranieri, arricciati come le babbucce dei Sultani . Pare inoltre che già a quei tempi fosse diffusa la pratica del “riciclo”, ovvero l'utilizzo dei dolci non consumati per la produzione dei nuovi. Evidentemente anche questa usanza, molto in voga oggi, fa parte della nostra storia!
Alla tradizione gastronomica senese appartengono, a buon diritto, anche altri dolci popolari, forse meno considerati rispetto ai più nobili panpepati e marzapani in quanto ritenuti più rustici e legati a certe usanze contadine, ma sempre vanto di una tradizione popolare antichissima.
E' il caso del “pan co' santi”, o “pan de' santi”, un dolce guarnito con noci e uvetta, mandorle, miele, pepe, olio e grasso di suino che può essere considerato una variante del “pan mielato”, il progenitore di tutti i dolci. E' di rito accompagnarlo con vino novello e con il vinsanto, per cui la comparsa sulle nostre tavole avviene normalmente nel mese di ottobre, anche se questo dolce è strettamente legato alla celebrazione della festa di Ognissanti del I novembre.
La “stiacciata di Pasqua” è un altro tipico dolce senese, molto semplice nell'impasto ma laborioso per la lunga lievitazione. E' insaporito con semi di anice ed è decorato con zucchero a velo.
Anche il “corollo” è un dolce riproposto dagli artigiani odierni a memoria di quello confezionato negli antichi forni.
E' un prodotto rustico poco dolce, impastato, come la stiacciata, con semi di anice e dall'aspetto di ciambella. Un tempo, nelle botteghe, era uso far passare una corda al centro di numerosi corolli e poi appenderli, a guisa di ghirlanda, sopra il bancone. Quando ne veniva staccato uno, si produceva su di esso un taglio da cui fuoriusciva un profumo così inebriante di anice che invogliava gli avventori a comprarne un pezzo.
. La ricetta delle ”frittelle”, secondo l'opinione del più noto frittellaio attuale, è più antica di quella del panforte. Sarebbero stati i falegnami che avevano la bottega nella Piaggia di San Giuseppe ad inventare questo delizioso bocconcino, in onore del loro Santo Patrono. Sono costituite di un impasto di riso, fatto bollire in acqua salata, farina e scorza grattugiata di arancio. Vengono fritte in olio di oliva e scolate quando raggiungono una colorazione nocciola. L'origine di questi dolci è imprecisata, ma sicuramente remota, anche se non ufficializzata in documenti o riferimenti letterari.
Sarebbe nato a Siena anche uno dei dessert attualmente più conosciuti: il “tiramisù”. Pare, ma siamo veramente nella leggenda, che in occasione di una visita a Siena del Granduca Ferdinando III dei Medici, i pasticceri senesi abbiano inventato una zuppa dolce chiamata, in suo onore, “zuppa del Granduca”. Chissà per quale motivo, i cortigiani attribuirono al dolce poteri afrodisiaci , ribattezzandolo con il nome allusivo che porta ancora oggi.
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